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Dalla risposta neurofisiologica ai sintomi del trauma

 

Nelle modalità di intervento con i bambini traumatizzati è utile orientare il lavoro con la Teoria Polivagale, in quanto, attraverso di essa, si può comprendere come gli stati corporei e i costrutti mentali interagiscono in modo dinamico con i segnali dell’ambiente e come poi possono scatenare l’attivazione di comportamenti adattivi. Questa conoscenza permette di comprendere lo stato psico-corporeo del bambino e di capire quanto la funzione regolatrice del clinico sia importante.

 

I sistemi biologici (viscerali, emotivi e cognitivi) sono dinamici e interdipendenti tra di loro e in egual modo lo sono gli organismi di individui diversi in relazione tra loro. Comprendiamo così come mai un viso gentile e un tono di voce calmante possono modificare l’organizzazione dell’organismo di un bambino e quanta importanza abbia saper riconoscere il suo stato interno – corrispondente al vissuto fisico, emotivo e psichico – e come tale riconoscimento possa aiutarlo ad uscire da stati di disorganizzazione e paura.

Gli stati psicopatologici non sono quasi mai statici e tendono a modificarsi a seconda del grado di sicurezza del contesto e dello stato fisiologico in cui si trova l’individuo. A questo proposito sappiamo che la comunicazione fisiologica mente-cervello-visceri è la strada maestra per la regolazione degli stati affettivi ed anche come questa consapevolezza influenzi l’atteggiamento del clinico in relazione a forme psicopatologiche con stati di attivazione elevati. Si rende necessario per il clinico sviluppare capacità atte al controllo della propria voce e della propria mimica espressiva in quanto la loro regolazione  promuove l’attivazione del nervo vago sociale del bambino e tende a smorzare il tono del suo sistema nervoso simpatico.

Il gioco ed i comportamenti di lotta aiutano il bambino a sviluppare strategie di difesa e di aggressività adattive, sono strumenti che permettono di modificare le reazioni primitive di attacco-fuga e di spostarsi su interazioni affettive positive e di coinvolgimento reciproco con l’altro. Riporto un esempio tratto dal libro di Van Der Kolk Il corpo accusa il colpo del 2015. 

Steve Gross era responsabile del programma di gioco al Trauma Center. Steve si aggirava spesso per i corridoi dell’ambulatorio con un pallone da spiaggia variopinto e, quando vedeva bambini arrabbiati o “congelati” in sala d’attesa, rivolgeva loro, per un attimo, un grande sorriso. I bambini rispondevano di rado. Dopo un po’ tornava, lasciando cadere “casualmente” il pallone vicino al bambino e, piegandosi a recuperarlo, lo spingeva piano verso quest’ultimo, che, di solito, in modo poco convinto, lo ritirava indietro. A poco a poco Steve riusciva a ottenere uno scambio reciproco che si concludeva con un sorriso sul volto di entrambi. Da movimenti semplici e ritmicamente sintonizzati, Steve aveva creato un piccolo posto sicuro in cui il sistema di coinvolgimento sociale poteva iniziare a riemergere”.

Il sistema vagale innerva i muscoli facciali, quelli della suzione e dello sguardo che sono alla base degli scambi inter-soggettivi madre-bambino e, dunque, del mondo interpersonale del sé. Questo dimostra come la comunicazione non possa avvenire al di là del corpo, della mimica e dello sguardo sia con bambini che hanno avuto uno sviluppo nomale sia con quelli cha hanno subito traumi. Il tipo di risposta che avrà il volto del clinico rispetto all’espressione mimica del bambino è quindi sostanziale.

Nei bambini e negli adulti traumatizzati la percezione del proprio corpo è molto limitata e nei casi gravi è quasi assente, tanto che a volte non riescono a percepire intere aree del loro corpo. Questa profonda disconnessione corpo-mente probabilmente si attiva come risposta al trauma stesso e permane anche per molto tempo successivamente all’evento traumatico. Per sopravvivere queste persone imparano a spegnere le aree del cervello che trasmettono sensazioni ed emozioni, che accompagnano e definiscono lo stato di terrore e che danno sostanza all’auto-consapevolezza e al senso di identità. La perdita del senso di sé viene chiamata depersonalizzazione e determina la sensazione di separazione dal corpo, in uno stato quasi onirico, ed un senso di estraneità in cui i suoni sembrano provenire da lontano, gli oggetti sembrano avere dimensioni stranamente ridotte o prive di spessore e le emozioni subiscono una marcata alterazione.

Chi ha subito traumi non è più in grado di vivere né il dolore né il piacere e ciò accade a causa del tentativo di annullare le sensazioni terrificanti con il risultato di mortificare la capacità di sentirsi pienamente vivi.

Molti bambini traumatizzati perdono la capacità di identificare il significato delle sensazioni che provengono dalle loro viscere e quella di riconoscere e dare un nome alle loro emozioni. Tale fenomeno prende il nome di alessitimia ed indica appunto l’impossibilità di tradurre in parole le emozioni; infatti alcuni bambini possono manifestare aggressività e contemporaneamente negare di essere arrabbiati perché privi della capacità di identificare le emozioni e di avere risposte diversificate per la gestione della frustrazione e possono reagire allo stress con distrazione, apatia o rabbia eccessiva. Qualunque sia la loro risposta, non riescono mai a riferire ciò che li sconvolge (Van Der Kolk, 2015). Tale condizione può migliorare imparando a riconoscere il rapporto tra le sensazioni fisiche e le emozioni.

I sintomi del trauma, come il congelamento e la depersonalizzazione, possono essere  modificati mettendo in movimento il corpo e facendo attenzione ai cambiamenti avvenuti all’interno di esso e alle sensazioni ed emozioni collegate.

La possibilità di riconnettersi con se stessi apre all’esperienza di potersi connettere con gli altri. I bambini traumatizzati hanno un sistema nervoso autonomo disregolato con poca capacità di autoregolazione affettiva ed hanno difficoltà nello stabilire un senso di appartenenza con l’altro. Per aiutarli a percepire nuovamente cosa accade nel loro corpo e nelle loro emozioni è necessario che il clinico sappia autoregolarsi così da co-regolare i loro stati affettivi permettendo l’apertura graduale alla relazione e all’acquisizione di nuove strategie per la gestione dello stress.

Il trauma rende confusa la comprensione del proprio stato interno e del senso di sé pertanto  condiziona la percezione che si ha dell’altro. Per avere relazioni autentiche è necessario poter riconoscere gli altri come individui diversi da sé, con le loro intenzioni e motivazioni specifiche. Solo così è possibile sviluppare qualità come l’empatia, avere reciprocità nello scambio relazionale e costruire relazioni affettive connotate da un senso di maggiore sicurezza.

Entrare in sintonia con il bambino, poterlo quindi rispecchiare nella sua identità e comprendere con affettività e calore i suoi stati emotivi, ristabilisce l’attaccamento ‘sicuro’ mancato nell’infanzia con la madre. Si è osservato come i bambini che vivono all’interno di relazioni ‘sicure’ imparino a comunicare la frustrazione e lo stress, i loro interessi, i loro desideri e obiettivi. Ricevere quindi una risposta sintonizzata con le loro emozioni li protegge da livelli estremi di attivazione sensoriale (arousal) causati dalla paura.

Quando il genitore ignora i bisogni del figlio, lo ritiene un fastidio per la propria esistenza, lo trascura o lo maltratta, il bambino impara a non comunicare più i propri bisogni. Come scrisse Bowlby “Ciò che non può essere comunicato all’altro (alla propria madre) non può essere comunicato a se stessi.” Questo determina uno stato dissociativo nel quale il bambino si sente perso, sopraffatto, abbandonato e disconnesso dal mondo; vive con un sé danneggiato e frammentato in cui la sua personalità non è più integra. Nella relazione primaria in cui è mancata la sicurezza e la protezione il senso di sé del bambino e la sua realtà interiore possono rimanere danneggiati.

Nell’intervento sul trauma è importante discernere il messaggio della comunicazione espressiva del volto e del corpo e rispondere con empatia somatica ad essi, così da poter esplorare i ricordi traumatici impliciti all’interno di quella che viene chiamata “finestra di tolleranza”. Per finestra di tolleranza si intende quello spazio mentale e neurofisiologico

che la persona traumatizzata ha a disposizione al proprio interno per sopportare un’esposizione a stimoli sensoriali (trigger) di attivazione del trauma stesso. Il clinico facilita e sostiene il bambino nella narrazione e quindi nell’esposizione al riemergere degli stati emotivi e fisiologici dell’evento traumatico. Lavorando sulla presa di coscienza degli stati emotivi e sensoriali che mano a mano emergono, e ponendosi egli stesso come “base sicura”, autoregolata e co-regolatrice, è possibile aumentare gradualmente la finestra di tolleranza agli stimoli. Questo permette di affrontare il trauma, iniziare a sciogliere lo stato di congelamento del corpo e trovare le risorse personali interne che sostengono la fuoriuscita dal vissuto traumatico; recuperare quindi contatto con la realtà, con il proprio corpo, le proprie sensazioni ed emozioni allo scopo di tornare a vivere una vita quotidiana ricca e libera dai vissuti del passato.

Per poter facilitare questo ‘ritorno’ in se stesso il clinico deve avere una buona consapevolezza della propria espressività, in quanto avere un volto aperto che si orienta in modo fluido e con un’adeguata prosodia indica ingaggio sociale; mentre avere i muscoli del volto contriti e tesi suggeriscono un’attivazione del sistema nervoso simpatico ed inoltre uno stato interno di ‘ritiro’ si manifesta in un volto inespressivo e in un tono di voce piatto.

Abbiamo quindi compreso come la funzione del clinico sia fondamentale e fondante di una inter-soggettività integrata, in cui le sensazioni non integrate si modificano e gradualmente gli stati disregolati si dissolvono.

BIBLIOGRAFIA

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